Tra circa quattro giorni tu sarai a Seattle. E non è un pensiero triste, perchè si tratta solo un minuscolo arrivederci a quando, tra meno di due settimane, ci ritroveremo tutti e due a New York, stanchi sfiniti, e vogliosi di addormentarci vicini. Oltreoceano, cioè più lontana di quanto io non sia mai stata.
Penso spesso a questo viaggio che si avvicina, è la mia lanternina luminosa di là dalla baia, attraente come le lucine delle ville di Long Island per Jay Gatsby. E' che sono stanca, e avrei voglia di prendermi un anno sabbatico di quelli mastodontici, fare fagotto e scappare con te in sudamerica o in indocina, in uno di quei posti dove nessuno e dico nessuno puo' venire a incrinare la tua tranquillità.
Cerco sempre di non pensare al lavoro, a quanto mi pesi, al fatto che vorrei fare altro, benchè l'impresa sia resa ardua dal fatto di doverci andare tutti i giorni, in quel malefico palazzo nero. Cerco allora di concentrarmi sulle cose che faccio e mi pare abbiano un senso, come gli articoli che scrivo e con cui guadagno gli unici soldi di cui vado fiera, la possibilità di diventare giornalista alla facciazza di chi propone solo di lavorare per la gloria, eccetera. Mi concentro su questo, ed evito di pensare troppo. Non conosco molta gente che può permettersi di fare il lavoro che ama, ma potrebbe sempre succedermi, e allora è inutile stare ad accartocciarsi di malcontento, ingrugnarsi perchè promuovono solo dei gran raccomandati, o altre stronzate.
Io sopporto, loro mi pagano, e noi partiamo. Questa è l'unica consecutio valida.
Ieri pomeriggio ci siamo distesi con Anabel a pancia all'aria sul tappeto elastico del giardino di Casa Totem. Stavamo lì, noi tre, nell'aria ormai quasi fresca delle sei, e tu parlavi di lavatrici per cellule, ed io ero proprio felice. Mi pareva di avere quindici anni, ma in più sentivo moltissimo meglio di allora.