Monthly Archives: October 2009

Stavo sognando di averti raggiunto in Francia, in una casa dove abitavi con dei tizi dalla gran cartola da ingegneri scemi, e non so per quale motivo ma io e te ci mettevamo a parlare su skype da una stanza all’altra, ed eravamo terribilmente felici di questa idea rivoluzionaria.
Poi io mi addormentavo, e al risveglio trovavo un tuo biglietto dove mi dicevi di raggiungerti in un posto misterioso, da indovinare tramite qualche fotografia.
Capivo subito che l’appuntamento era in un teatro, dove in quei giorni veniva rappresentato uno spettacolo pieno di fasti e velluti… mi mettevo a correre, ridendo, per raggiungerti, e a quel punto è suonato il telefono, è suonato il mondo reale, e meraviglia delle meraviglie eri tu! Per davvero! Con tutti i tuoi racconti di lussuosi hotel koreani, di hall piene di servitù (cielo!), e di carta igienica il cui fondo è piegato a origami.
Che bello sentirti. Che voglia di vederti…ma oggi è soltanto sabato, e quindi, da brava, vedrò di non pensare ai nostri sabati, che altrimenti mi rattristo.
Penserò a sabato prossimo, quando ci sveglieremo nella casa di legno.

Mi sveglio e tu sei partito.
Sbircio fuori dalla finestra il cielo bianco latte. E’ talmente opaco che non posso nemmeno individuare il tuo aereo e mandargli baci. Ho deciso: mica mi piace la nostra città, senza di te.
Ci vediamo ad Amsterdam, signor A.

le cascate paradiso

Io l’ho capito che gli occhiali da nerd che ti danno al cinema quando vai a vedere Up, non servono mica per la visione in 3D del film. Nossignore. Servono per evitare di ridicolizzarsi davanti a tutti piangendo con tanto di singhiozzini, dall’inizio alla fine, senza ritegno. Perchè quello è un dannatissimo capolavoro, e ti fa piangere di tristezza e di felicità allo stesso scemissimo modo.
Una storia talmente nostra da farmi sotterrare lentamente nella poltrona, con le calzette di cachemire allungate su di te, e talmente tante lacrime da impedirmi di vedere qualcosa.
Però che bello, che meraviglia: i palloncini colorati, i giochi con le nuvole, i viaggi…
La malinconia dolcissima della mancanza, la vecchiaia con l’agrodolce dei suoi ricordi. Esci e il mondo ti appare incomprensibile: tu sei così felice. Guardi il carroatrezzi e non capisci. Dentro di te, hai soltanto voglia di sogni e di poesia. Dai la buonanotte a chi ami, ed entrambi avete gli occhi lucidi che ridono.
Dio benedica la Pixar.

staring at the sky

Tra tutte le foglie giallo-dorate di questi giorni,
tra le pagine delle mie agende a copertina nera,
tra i biglietti dei treni e degli aerei,
tra i fusi orari e i cieli azzurri d’ottobre, una infantile e illimitata felicità.


All afternoon you’ve been buried in a biography
Of an aviatrix lost at sea, never to be found
Holed up in your room, holding out for an apology
But gravity will get to you eventually

You’ll come down from upstairs again
With all those model aeroplanes

Cade giù, su sfondo grigio-ghiaccio, un pò di quella pioggia autunnale che fa venire voglia di cioccolate con panna e negozietti di design in cui perdersi.
Le mie orchidee, però, immerse nel tepore di casa credono sia di nuovo primavera; gettano su nuovi germogli ed io invidio il modo semplice in cui si fanno ingannare.
Mentre scrivo qui, mi premuro di gettare di tanto in tanto un’occhiata severa a Polpetta, impegnata a fare la guardia ad una rondella di liquirizia che deve aver scovato non si sa come nella mia borsa.
La bestiaccia questa mattina aveva freddo e nonostante il ridicolo maglioncino di lana che le ho infilato addosso pareva non avere alcuna intenzione di uscire a fare la pipì sotto le intemperie.
Io, invece, è come se fossi nel mio ecosistema, con la cuffietta di lana e gli stivaletti di gomma, con la sensazione, soprattutto, che ci aspettino cose.
E’ un autunno tremendamente dolce, anche se freddissimo. Ieri ho perso uno dei miei amati guanti svedesi, ero un pò triste e tu mi hai disegnato la storia del mio guantino, scappato in giro per il mondo con una guantina spaiata come lui. Sorrisi enormi.
Me ne sto qui, tranquilla, scorrendo fotografie di case olandesi con il caminetto, e pensando a quanto desidero che sia presto. A quanto voglio che su Amsterdam cada la neve, e sia abbastanza freddo da dover dormire uno dentro l’altro.

estemporanea ed irritata recensione di Bartleby lo Scrivano.

Pur dubitando che si tratti di un rischio plausibile anche solo il fatto che qualcuno arrivi alla fine del post, è corretto che io avverta il lettore che in questa sede si svelerà in parte o totalmente la trama di un libro di cui, comunque, non vi potrebbe fregare di meno.

Ho un problema con Bartleby, io.
Voglio annotarlo qui, e annotare le mie considerazioni su di lui, perchè benchè non lo sopporti, in un certo senso ne colgo l’importanza.
Niente da appuntare a Melville, il racconto è ottimo, ma non mi spiego, non mi capacito, di come quell’essere ignavo sia stato assunto a simbolo della rivolta studentesca.
Per mia ignoranza non conoscevo chi fosse questo Bartleby, e quando ha iniziato a comparire sui tutti i muri di Bologna, la cosa mi è dispiaciuta. Ma come? Io non conosco quest’uomo che sarà sicuramente un eroe, un poeta rivoluzionario, o un pirata, o il personaggio utopista di un qualche libro sudamericano?
Oh come mi sbagliavo! Il simbolo della rivolta giovanile, la persona a cui è stato intitolato un intero spazio di resistenza, è una sottospecie di inviduo che appare afflitto da una qualche forma di autismo, incapace di lottare, incapace di ribellarsi al di là del suo ottuso avere preferenza di no.
Nelle prime pagine questa ostinazione nel preferire di no, questa geniale autodeterminazione di possibilità (cioè rispondere ad un ordine con un diniego "per preferenza", come a dire "grazie, ma scelgo di no"), mi era piaciuta moltissimo, perchè appariva come una dimostrazione di forza, di astuzia, di elevazione.
Un sottoposto che risponde ad un ordine dicendo che in fondo, grazietante, ma preferirebbe di no, "I would prefer not to", è una cosa meravigliosa.
Una qualsiasi persona di modi garbati e buon senso resta annichilita e non trova spazio neppure per l’irritazione. Come si può, infatti, reagire a qualcosa che scardina tutte le nostre più elementari considerazioni sull’ordine delle cose?
Ecco, questa parte è sublime, ma poi pian piano si scopre chi è realmente questo Bartleby, questo scrivano che non ha più voglia di copiare, che non ha voglia nemmeno di scendere le scale, che continua a contemplare i muri di mattoni fuori dalla sua finestra e semplicemente preferisce di no.
Ci si può intenerire, sono d’accordo, davanti alla miseria della sua esistenza, davanti alla povertà, ai pranzi consumati a dolcetti di zenzero, alla mancanza di un qualsivoglia rapporto umano (chissà?)… ma non ci si intenerisce più, anzi, ci si offende, quando questa imperturbabilità si trasforma in scemenza, in maleducazione sfrontata, e soprattutto in irrazionalità assoluta.
Nemmeno davanti alle offerte più vantaggiose (nemmeno davanti all’offerta di girare il mondo per diamine!) Bartleby si smuove. Imperturbabile, sciocco, senza passione.
Come si può prendere a modello, uno stupido che si lascia morire praticamente di fame, in una galera in cui è voluto finire lui stesso? E’ un suicida, Bartleby? Nemmeno.
Non ha aspettative, lo dice persino, non ha desideri, non ama il cibo, nè i viaggi, nè l’ozio. E’ un ratto.
Sa soltanto cosa preferirebbe non fare, e a me sta propriamente sul cazzo.

muniti dei conforti religiosi

E’ metà ottobre, autunno, punto e a capo.
Una manciata di conchiglie tintinnanti e fotografie in cui imperversa l’azzurro: rigiro questo, tra le dita, ed è come tenere stretta un’intera bellissima giornata, e voglio dire proprio tutta quanta.
Sotto quel cielo gelido e limpido, e sotto a quei due piumoni, io sono stata felice nel modo più puro possibile, e ancora adesso, a casa di sabato sera con il male al pancino, è come se non potessi davvero desiderare altro.
Ne ridevamo, prima, di questo periodo di malattie felici, di questa sensazione di ricchezza assoluta anche di fronte ai piccoli o medi contrattempi quotidiani.
Cosa si può desiderare, dico, più di due ombre proiettate sulla sabbia umida?
Più di una tasca piena di conchiglie? Più di lettone in cui stare in tre tutti appiccicati?
Più di una giornata così?

bum bom bam

(BUM! BOM!! BAM!!!)
Ci sono i muratori nell’appartamento affianco, e ogni secondo ho la netta sensazione che a forza di martellate mi siano entrati in casa. In previsione di ciò, anzichè gironzolare mezza nuda come mio solito, mi sono infilata un casto e serissimo pigiama. Non si sa mai, ecco.
Intanto nel forno, preparo cosine per il pic nic di oggi, un pic nic d’ottobre, con il sole, e il telo sull’erba…
Vorrei soltanto non essere ritornata al lavoro, non avere da impiegare il pomeriggio là dentro, non dovermi occupare di scemenze assicurative che danno la nausea.
Però, al tempo stesso, di che posso lamentarmi?
Non si viaggia per il mondo senza soldi, non si parte per amsterdam su un treno notturno (dove farò certamente una bruttissima fine) senza soldi. Senza soldi, detta come va detta, non si fa un cazzo.
E quindi grazie grande gruppo assicurativo, grazie palazzone nero, e ti prego, assumimi a tempo indeterminato, per sempre, per tutti i secoli dei secoli, amen. Ci penserò io, a licenziarmi, grazie.
La mia orchidea è ancora meravigliosamente fiorita, fuori c’è un cielo talmente azzurro da infastidire gli occhi, e non sarebbe bellissimo, oggi, prendere la macchina e andare al mare? Immergere i piedi nella sabbia tiepida, giocare con gli aquiloni, tirare il frisbee alla P. che tanto non lo va a prendere manco morta, mangiucchiare, dormire cullati dallo schhh schhh delle onde?