A.F.

E’ come se da un paio d’anni il mio corpo e la mia mente stessero solo preparandomi a questo. Come se tutto quel pensare, tormentarmi, preoccuparmi, tutta quell’ansia, servisse solo ad anticiparmi tutto questo. La tua assenza, Nonno, il tuo non esserci più.

Non ero pronta, nonostante tutto quel senso di disgrazia imminente che mi portavo appresso da un po’, nonostante la tua salute non più buona, nonostante a volte dimenticassi quanto eri divertente e pieno di iniziative un tempo.
Comunque c’eri, anche se eri invecchiato, eri dietro una porta al mio arrivo ogni venerdì, dietro una cornetta del telefono quelle poche volte in cui mi capitava di chiamarti – è ridicolo che mi venisse in mente di chiamarti ogni volta che sentivo la sigla di Un posto al sole, che poi era l’unica sciocchezza che ti concedevi da sempre.

Mi manca la tua voce, adesso, quel modo pacato di parlare che avevi, mai sgarbato o maleducato nemmeno quando eri arrabbiato, come quando di recente ti abbiamo buttato tutti i sonniferi e tu hai affermato serissimo di essere nostro “prigioniero”.

Mi hai insegnato tutto, mi hai portata a scalare i calanchi con le corde, alle manifestazioni del primo maggio, mi venivi a prendere ovunque e mi giustificavi sempre. Mi caricavi in scooter ed io siccome ero piccola stavo in piedi davanti a te, sulla pedana, che sicurezza stradale scansati, ma erano altri anni e poi non siamo mai caduti.
Ti amavo di un amore folle, e tu mi hai sempre amata tantissimo, ci capivamo al volo. Avevi sempre ragione e adesso non so più cosa fare.

I tuoi occhi tristi e spaventati all’ospedale mi fanno ancora a pezzi, anche se so che ora sono chiusi e che non soffri più.

Ho nostalgia da morire, ma l’avevo già da anni, di quei giorni splendenti d’estate in cui mi portavi con te ai ritrovi con i tuoi ex colleghi dell’Ospedale. Vi radunavate in un terreno in collina, e tu mi portavi perché mi hai sempre portata ovunque. C’erano immensi alberi di ciliegie, il prato era in pendenza e si vedeva tutta la città. Mentre io mi arrampicavo sugli alberi voi parlavate dei tempi del lavoro, della politica, e tu eri felice perché ti è sempre piaciuto stare in compagnia.

Ho nostalgia, ancora di più ed è davvero assurdo, del ragazzo che sei stato e che mai ho conosciuto, quello sorridente e spavaldo delle foto in divisa dell’aeronautica, quello che girava in bicicletta per Pianoro, vestito bene e con i capelli lunghi. Ti rivedo felice nelle fotografie in bianco e nero e darei qualsiasi cosa per vederti sorridere ancora come non facevi da un po’, da quando piano piano erano morti quasi tutti gli amici di un tempo. Darei qualsiasi cosa per un altro venerdì al sole del giardino, seduti solo io e te, vicini, come facevamo quasi sempre.

Tu non credevi in Dio e nemmeno io. Credevi che le persone di fondo fossero buone,  che tutti siamo nati uguali e che è solo il lavoro a dare dignità ad un individuo. Amavi Enrico Berlinguer e Gramsci, non ti sei mai rassegnato nemmeno davanti allo scempio degli ultimi anni di questo paese. Eri generoso, non volevi essere di peso.
Forse per questo hai fatto tanto in fretta.
Nonostante questo dolore profondo, lo smarrimento e le lacrime, temo purtroppo di non aver ancora compreso quanto diverso sarà il mondo senza di te.

 

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